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Nella storia del rock americano, poche band hanno saputo incarnare in maniera così completa il sogno di unire tecnica, cuore e spiritualità come i Kansas. Nati nel cuore degli Stati Uniti, in quello stato del Midwest che ne ha ispirato il nome e le radici, i Kansas non furono solo un gruppo rock: furono il ponte tra la musica colta europea del progressive e l’anima profonda dell’America rurale, capace di trasformare melodie intricate in inni universali.
La loro vicenda comincia molto prima che i riflettori del mondo si accendessero sul successo planetario di brani come “Carry On Wayward Son” o “Dust in the Wind”. La storia dei Kansas è quella di una generazione di ragazzi che, negli anni Sessanta e Settanta, crebbe in un’America in fermento, sospesa tra contestazioni studentesche, guerre lontane e un futuro tutto da scrivere.
A differenza di molte band nate nelle capitali musicali come New York, Los Angeles o San Francisco, i Kansas nascono in un luogo apparentemente distante dai grandi centri della cultura rock: Topeka, Kansas. Una cittadina al centro delle grandi pianure, più nota per il grano e il vento che per le chitarre elettriche. Ma fu proprio da quell’isolamento geografico che maturò la loro originalità.
I futuri Kansas iniziarono come tanti ragazzi americani: cover band che suonavano nei locali, alle feste universitarie, nei piccoli teatri di provincia. Il primo nucleo prese forma attorno al chitarrista Kerry Livgren, mente creativa e principale compositore, e a Phil Ehart, batterista energico che sarebbe rimasto per sempre colonna portante della band. Le loro strade si incrociarono con altri giovani talenti locali, tra cui Steve Walsh, dotato di una voce potente e carismatica, e Rich Williams, chitarrista dall’inconfondibile stile.
Il gruppo, inizialmente conosciuto con diversi nomi – tra cui White Clover – trovò presto la sua identità e decise di chiamarsi Kansas, un omaggio diretto alle proprie radici. Quel nome semplice ma evocativo sarebbe diventato sinonimo di un rock che sapeva parlare all’America intera, portando l’orgoglio di uno stato spesso dimenticato sulle copertine dei dischi di mezzo mondo.
All’inizio degli anni Settanta il panorama musicale era in pieno fermento. In Inghilterra, band come Yes, Genesis, Emerson Lake & Palmer e King Crimson stavano rivoluzionando il rock, innestandolo con le strutture della musica classica e jazz, dando vita al fenomeno del progressive rock. In America, invece, il rock restava più legato al blues, al country e al folk, con sonorità più semplici e dirette.
I Kansas si posero come punto di contatto tra queste due anime: da un lato l’amore per le orchestrazioni complesse, le suite lunghe e i tempi dispari tipici del prog europeo; dall’altro la capacità tutta americana di scrivere canzoni immediate, ricche di pathos e di immagini radicate nella tradizione popolare.
Il risultato fu un linguaggio musicale nuovo: sinfonico ma accessibile, tecnico ma emotivo. In particolare, Kerry Livgren introdusse nelle composizioni un approccio quasi filosofico, arricchito da testi che parlavano di fede, spiritualità, ricerca interiore. Tematiche che avrebbero reso i Kansas unici nel panorama mondiale.
Nel 1973 arrivò il momento decisivo: la band firmò un contratto con la Kirshner Records, etichetta fondata da Don Kirshner, produttore noto per aver lavorato con i Monkees e i Carpenters. L’anno successivo, nel 1974, uscì il loro album d’esordio: “Kansas”.
Il disco, sebbene accolto inizialmente con moderato successo commerciale, mostrava già tutte le caratteristiche della band: brani lunghi e articolati come “Journey from Mariabronn” convivevano con pezzi più diretti come “Can I Tell You”, dando vita a un sound che attirò l’attenzione di critica e pubblico. La copertina, con l’immagine del famoso murale “Tragic Prelude” raffigurante John Brown, già sottolineava il legame tra la band e la storia del Kansas.
Dopo l’esordio, i Kansas non persero tempo. Nel 1975 pubblicarono due album: “Song for America” e “Masque”. Il primo consolidava la loro vena prog, con suite di oltre dieci minuti e una forte impronta sinfonica. Il secondo, invece, mostrava già una maggiore attenzione alla forma-canzone, segno della loro evoluzione verso uno stile più accessibile.
Fu con il quarto album, però, che arrivò la consacrazione: “Leftoverture” (1976). Qui i Kansas trovarono l’equilibrio perfetto tra complessità musicale e immediatezza melodica. L’album conteneva quella che sarebbe diventata la loro canzone più celebre: “Carry On Wayward Son”.
Con la sua apertura corale, le chitarre potenti e i cambi di ritmo, il brano divenne immediatamente un classico, conquistando le classifiche americane e trasformandosi in un inno generazionale. Il successo di “Carry On Wayward Son” aprì definitivamente ai Kansas le porte della notorietà internazionale.
“Leftoverture” non fu soltanto un successo commerciale, ma anche un’opera capace di definire l’identità dei Kansas. Ogni brano era costruito con cura maniacale, fondendo arrangiamenti complessi a testi profondi. La voce di Steve Walsh raggiungeva qui uno dei suoi apici, e la band dimostrava di poter competere con i giganti del prog europeo mantenendo però una forte anima americana.
Il disco vendette milioni di copie e consacrò i Kansas come nuova forza del rock progressivo statunitense. Le tournée si moltiplicarono, e la band si trovò catapultata da piccoli locali a grandi arene gremite.
Se “Leftoverture” aveva aperto le porte del successo, il passo successivo le spalancò completamente. Nel 1977 uscì “Point of Know Return”, album che segnò l’apice commerciale della carriera dei Kansas.
La title track, con il suo ritmo incalzante e le armonie vocali, divenne subito un successo radiofonico. Ma fu un brano acustico e intimo a fare la differenza: “Dust in the Wind”.
Scritta da Kerry Livgren quasi per caso, come semplice esercizio di chitarra fingerpicking, la canzone divenne una delle più celebri ballate della storia del rock. Con il suo testo poetico e malinconico – “Tutto ciò che siamo è polvere nel vento” – toccò corde universali, diventando un inno alla caducità della vita e al senso dell’esistenza.
“Dust in the Wind” scalò le classifiche in tutto il mondo, trasformando i Kansas in una band da milioni di copie vendute e facendo entrare la loro musica nell’immaginario collettivo.
discografia
Kansas | 1974 | L’album di debutto, che mescola rock progressivo, hard rock e influenze sinfoniche. |
Song for America | 1975 | Un album che esplora temi di storia americana e introspezione, con brani epici e arrangiamenti orchestrali. |
Masque | 1975 | Un album più oscuro e complesso, con un sound più hard rock e progressive. |
Leftoverture | 1976 | L’album che ha consacrato la band a livello mondiale, con la celebre hit “Carry On Wayward Son” e un sound più accessibile. |
Point of Know Return | 1977 | Un album che consolida il loro successo, con brani iconici come la title track e “Dust in the Wind”. |
Monolith | 1979 | Un album che segna un’evoluzione nel suono della band, con influenze AOR e un tocco più melodico. |
Audio-Visions | 1980 | L’ultimo album in studio con la formazione originale, un lavoro che esplora temi di spiritualià e redenzione. |
Vinyl Confessions | 1982 | Un album che segna una svolta verso un suono più rock cristiano e AOR, con il nuovo cantante John Elefante. |
Drastic Measures | 1983 | Un album che continua a esplorare sonorià AOR, con brani più diretti e melodici. |
Power | 1986 | Il primo album con il nuovo chitarrista Steve Morse, che mescola rock progressivo e AOR. |
In the Spirit of Things | 1988 | Un concept album che narra la storia di un paese in crisi, un lavoro più intimo e riflessivo. |
Freaks of Nature | 1995 | Un album che segna un ritorno a un sound più rock progressivo, con brani complessi e strumentali. |
Always Never the Same | 1998 | Un album che ripropone brani classici della band in una nuova veste sinfonica. |
Somewhere to Elsewhere | 2000 | Un album che celebra il loro sound classico, con brani hard rock e progressive. |
The Prelude Implicit | 2016 | Un album che segna un ritorno a un sound più rock progressivo, con brani complessi e strumentali. |
The Absence of Presence | 2020 | Un album che esplora temi di solitudine e isolamento, con un sound più oscuro e riflessivo. |
Il successo straordinario di “Point of Know Return” e della ballata immortale “Dust in the Wind” proiettò i Kansas nell’Olimpo del rock. Ormai la band non era più soltanto un nome di culto tra gli appassionati di progressive, ma un fenomeno da classifica capace di rivaleggiare con i giganti del rock classico.
Negli anni a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, i Kansas divennero simbolo della capacità americana di reinterpretare la complessità del progressive europeo attraverso un linguaggio diretto, emozionale e radicato nella tradizione popolare. Ma come spesso accade nella storia della musica, la vetta del successo portava con sé anche le prime crepe.
Con milioni di copie vendute e tournée interminabili, la vita dei Kansas divenne un turbine di concerti, interviste, viaggi e impegni discografici. L’equilibrio creativo che aveva caratterizzato gli anni d’oro cominciava a incrinarsi.
Steve Walsh, la voce potente e magnetica della band, iniziava a sentirsi logorato dalle pressioni. Kerry Livgren, invece, si avvicinava sempre di più a una ricerca spirituale e religiosa che avrebbe influenzato i testi e le dinamiche interne del gruppo.
L’album “Monolith” del 1979, pur contenendo ottimi brani come “People of the South Wind”, non riuscì a replicare il successo dei precedenti lavori. Le tensioni tra i membri crescevano, e la necessità di coniugare successo commerciale e ambizioni artistiche diventava sempre più complessa.
All’inizio degli anni Ottanta, il panorama musicale stava cambiando. La stagione del progressive rock, con le sue lunghe suite e le orchestrazioni elaborate, lasciava spazio a sonorità più dirette: new wave, hard rock e AOR (Album Oriented Rock). I Kansas dovettero adattarsi a questo nuovo contesto.
Nel 1980 pubblicarono “Audio-Visions”, album che segnò un punto di svolta. Fu l’ultimo con la formazione classica degli anni Settanta, e al suo interno compariva un brano destinato a diventare simbolo della svolta spirituale di Kerry Livgren: “Hold On”, scritto dopo la sua conversione al cristianesimo.
Poco dopo l’uscita del disco, Steve Walsh lasciò la band per divergenze artistiche e personali. Al suo posto arrivò John Elefante, cantante e tastierista di origini italiane, dotato di una voce potente e perfettamente adatta al nuovo corso musicale.
Con Elefante alla voce, i Kansas pubblicarono due album significativi: “Vinyl Confessions” (1982) e “Drastic Measures” (1983). Entrambi riflettevano in modo evidente l’influenza cristiana di Livgren e portarono la band verso un suono più vicino all’AOR, con canzoni più brevi e radiofoniche. Il singolo “Play the Game Tonight”, tratto da “Vinyl Confessions”, ottenne un buon successo, ma il pubblico storico faticava a riconoscere nei nuovi Kansas la band dei tempi di “Leftoverture” e “Point of Know Return”.
Nel 1983 Kerry Livgren e il bassista Dave Hope lasciarono i Kansas per formare i AD, band cristiana dedita a un rock più spirituale. I Kansas sembravano giunti al capolinea.
Tuttavia, la storia non era destinata a chiudersi lì. Nel 1986, Steve Walsh tornò nella band, insieme a Phil Ehart e Rich Williams. I Kansas firmarono un contratto con la MCA e pubblicarono “Power” (1986), un album che segnava il ritorno a un rock più diretto e potente, in linea con l’hard rock degli anni Ottanta.
Il singolo “All I Wanted” riportò i Kansas in classifica, dimostrando che la band era ancora capace di reinventarsi. Il seguito, “In the Spirit of Things” (1988), fu un concept album prodotto da Bob Ezrin (già collaboratore dei Pink Floyd e di Alice Cooper), ispirato a un’alluvione che colpì una cittadina del Kansas. Nonostante l’ambizione, l’album non ebbe grande riscontro commerciale.
Con l’avvento degli anni Novanta, il mondo musicale era ormai dominato dal grunge e dall’alternative rock. I Kansas, però, continuarono il loro percorso con dignità, mantenendo viva la fiamma dei fan storici.
Nel 1990 pubblicarono il live “Live at the Whisky”, testimonianza di una band che, pur tra alti e bassi, restava magnetica sul palco. Negli anni successivi alternarono attività dal vivo e nuove uscite, tra cui “Freaks of Nature” (1995), che li riportò a sonorità più vicine al progressive.
Il vero evento di quegli anni, tuttavia, fu la pubblicazione nel 1998 di “Always Never the Same”, registrato con la London Symphony Orchestra. Questo album sinfonico riproponeva i grandi classici della band in chiave orchestrale, dimostrando quanto le composizioni dei Kansas si prestassero a un dialogo con la musica colta.
Il nuovo millennio portò con sé una riscoperta dei Kansas. Brani come “Carry On Wayward Son” e “Dust in the Wind” continuarono a comparire in film, serie TV e spot pubblicitari, raggiungendo nuove generazioni.
Nel 2000 uscì la raccolta “Device – Voice – Drum”, che documentava un concerto spettacolare a supporto del loro tour mondiale. La band non smise mai di suonare dal vivo, diventando una presenza costante nei festival e nei tour del classic rock.
Il 2016 segnò un nuovo capitolo con la pubblicazione di “The Prelude Implicit”, il primo album in studio dopo 16 anni. Con una formazione rinnovata – Steve Walsh aveva lasciato definitivamente la band nel 2014 – i Kansas dimostrarono di avere ancora molto da dire. L’album fu accolto positivamente da critica e fan, confermando la vitalità del gruppo.
Nel 2020, nonostante la pandemia, i Kansas pubblicarono “The Absence of Presence”, un lavoro che ribadiva la loro capacità di coniugare passato e presente, con lunghe suite, melodie avvolgenti e testi profondi.
Dopo oltre cinquant’anni di carriera, i Kansas restano una delle band più longeve e rispettate del rock americano. La loro eredità va ben oltre i successi discografici: hanno dimostrato che il progressive rock poteva parlare anche con un accento americano, mescolando tecnica e cuore, filosofia e immediatezza.
“Carry On Wayward Son” è oggi uno degli inni più riconoscibili della storia del rock, tanto da essere diventato colonna sonora di serie come Supernatural, mentre “Dust in the Wind” resta una delle ballate più eseguite di sempre, reinterpretata da artisti di ogni genere.
Il loro nome evoca non solo la musica, ma anche un senso di viaggio, di ricerca e di appartenenza. Dalle pianure del Midwest ai palcoscenici di tutto il mondo, i Kansas hanno saputo trasformare l’America profonda in un linguaggio universale.
Il nome “Kansas” fu scelto non per caso: la band voleva celebrare le proprie radici nel Midwest. Inizialmente il gruppo si chiamava White Clover, ma l’adozione del nome dello Stato trasmise subito un senso di appartenenza e di identità americana.
Kerry Livgren compose Dust in the Wind come semplice esercizio di chitarra fingerpicking. La moglie, ascoltandolo, gli disse che la melodia meritava un testo. Livgren quasi non volle inserirla nell’album, convinto fosse troppo semplice. Il risultato? Divenne la canzone più celebre della band.
Il brano più famoso dei Kansas, Carry On Wayward Son, fu scritto da Livgren all’ultimo momento durante le sessioni di Leftoverture. Doveva essere solo un riempitivo, e invece si trasformò nel singolo che cambiò la storia della band.
Per oltre dieci anni, Carry On Wayward Son è stata la canzone simbolo della serie TV “Supernatural”, usata come sigla per i finali di stagione. Questo ha permesso alla band di conquistare una nuova generazione di fan.
A differenza di molte band prog che usavano il mellotron per le parti orchestrali, i Kansas introdussero il violino elettrico come strumento stabile, suonato da Robby Steinhardt. Questo rese unico il loro sound, una fusione tra rock e musica sinfonica.
Negli anni Settanta i Kansas aprirono diversi concerti dei Queen negli Stati Uniti. Brian May dichiarò di essere rimasto colpito dalla potenza delle armonie vocali della band americana.
Negli anni la formazione dei Kansas è cambiata molte volte: oltre 20 musicisti diversi hanno fatto parte del gruppo, ma la band ha sempre mantenuto una forte identità. I pilastri storici sono stati Phil Ehart e Rich Williams, rimasti fedeli per tutta la carriera.
Nel 1988 i Kansas pubblicarono In the Spirit of Things, prodotto da Bob Ezrin. L’album era un concept ispirato a una vera alluvione che devastò una città del Kansas. Nonostante l’idea affascinante, l’album non ebbe il successo sperato ed è oggi un “tesoro nascosto” della discografia.
Steve Walsh, con la sua voce potente e teatrale, fu il marchio di fabbrica della band. Quando lasciò definitivamente nel 2014, molti fan temettero la fine dei Kansas. Eppure, con Ronnie Platt alla voce, la band riuscì a rinnovarsi mantenendo intatto lo spirito originario.
Con oltre 30 milioni di dischi venduti e più di cinquant’anni di carriera, i Kansas restano una delle band più longeve e influenti della storia del rock. Ancora oggi continuano a esibirsi, dimostrando che la loro musica ha resistito al tempo, alle mode e alle generazioni.